domenica 8 giugno 2014

Of Silent Hills and Inner Pain


La definizione di uno statuto totalmente soggettivo della follìa - della follìa come di qualcosa non di estraneo, ma di assolutamente interno - è un qualcosa su cui inevitabilmente tornerò sempre. La ragione è semplice: la mia adolescenza è stata caratterizzata, più che da qualsiasi altra cosa, da un rapporto strettissimo (e straziante) con la sragione, l'insensato e l'inaccettabile. Sono molto affezionato a questa poesia, perché ritengo sia una di quelle che con più forza - seppure in modo totalmente mitologico - espresse per me (in me (per mezzo di me)) questa lancinante consapevolezza di un conflitto insanabile nel cuore della mia stessa persona. Conflitto per il quale io ero innocente ma non riuscivo a essere una persona felice e normale, ragion per cui mi rovesciavo in colpevole, ma proprio il mio essere colpevole era cagione legittima del mio odiare gli altri, perché era un'ulteriore sofferenza immeritata... e così via. Come nella poesia stessa, anche a posteriori è difficile separare quanto competeva all'organico, quanto al sociale e quanto, forse ma forse, allo spirituale.


"Why don't you tell us something about you, then?", asked respectfully No One. Lo, as you wish, they replied.

So the Daemon went on scratching
Excavating flesh, splattered blood
Everywhere it searched for the reason
Inside the body of its host.

But the bloody gore it handled
It spoke of nothing
And the rotten blood it tasted
It tasted of nothing.

The brain was inflated, scorched
Yelling through electrical discharges
Groaning of mysterious reactions
It would be a Renaissance to tear it.

But so much loneliness
It was folly
And so much beautiful bliss
It went away.

The Demon began to understand
And slowly yet painfully went insane
Becoming one with its host
An archaic structure of pain and blood.

So everything still was there
So much pain
To have two spirits bound to you
Starving inside.

"To writhe in a deep organ-knot shall be the first step", commented the Lady. And then there was silence.


Ricordo che anni fa, quando pubblicai questa poesia su un sito, qualcuno nei commenti mi mise in guardia: questa rappresentazione della follìa è un po' troppo buona. Penso che una simile impressione, oltre e più che per via delle immagini impiegate, fosse dovuta a tutta una serie di dispositivi retorici più o meno involontari che, infatti, malgrado si discostino magari dal mio presente modo di scrivere, nel riportare la poesia ho cercato di conservare. Mi riferisco in particolare alla maiuscola fissa a inizio verso, che fa da pendant ad una sintassi spezzata, in cui quasi ogni verso "resetta" la logica del discorso, come in uno stream of consciousness schizofrenico; e, forse, anche alla struttura narrativa che si situa decisamente fuori dal tempo, ma in modo sanguigno e granguignolesco. Al tempo stesso, questa medesima storia si può leggere anche in chiave dialettica: cosa abbiamo qui infatti se non il Daimon che cerca sè stesso nel corpo immaginario del soggetto, e che alla fine riconosce la propria stessa impossibilità, condannando il soggetto ad una deiezione permanente? Ma se è così non saremmo forse qui in una sorta di sospeso ed eterno istante precedente l'accesso alla vita adulta - alla normalità?

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