domenica 11 maggio 2014

Io amo la fine del mondo

Già, si parlava di religione. Un balzo in avanti, dunque. Ricordo ancora, una mattinata o forse primo pomeriggio vagamente soleggiato d'una primavera ferocissima: a lezione universitaria, il secondo anno. Non seguivo, ovviamente. Le lezioni sono per me sempre state l'oppio dei popoli, per così dire, e infatti all'università per lo più me ne tenni alla larga (ancora oggi, quando penso di tornare all'università e vado a vedere qualche lezione, mi prende subito un senso come di angoscia, come di solitudine, come di inutilità ineluttabile).
Non seguivo e pensavo a come fermare, sulla pagina degli appunti, la dinamica di colpa che combattevo giorno per giorno, nel tentativo, vano, vanissimo (da fiera delle vanità, proprio) di purificarmi. Purificazione come fuoco: la decisione estrema, continuamente reiterata: cosicché, di fatti, "io amo la fine del mondo".
Ci stavo provando col buddhismo e la meditazione, dopo aver ricevuto l'anno precedente un'introduzione allo yoga e agli scritti di Lao-Tse e altri figuri depensanti. Dovevo chiarire a me stesso il fatto che ancora, dopo tutto, esistevo, fortissimamente, ma all'epoca non sospettavo che di lì in avanti tutto il resto è delirio - cioè che non c'era niente in fondo di più e da più che, una buona volta, dirsi, e amarsi. Caddi nel metafisico come corpo morto cade. Divenni ossessivo. Ma non lo sapevo, e con gli occhi lucidi ero il sadhu di me stesso, presuntuosissimo d'umiltà riflessa (come tutti gli orientalofili inconfessabilmente e forse più sottilmente sempre sono). Così, su quella panca, quel giorno, mi provai a declinare quell'ansia filosofica perennis sul filo aguzzissimo d'un cristianesimo di rigetto - fatto di insicurezza, masochismo e trionfante ansia del sublime.


Io amo la fine del mondo, e chiedo
ogni giorno perdono ai santi all'uomo
all'inferno, perché vedo il mio errore
e non smetto. Troppo forte mi spinge
il dolor ch'ho colto fra voi e ch'ho in petto,
a fiotto, come acqua una fogna in autunno;

mani protese, così mi contagio.

Sempre vedo che sto al modo di straccio
bagnato e balordo, pieno di grinze,
sono per terra, per tutti d'intralcio,
al più balbetto una scusa. E se poi
provo a salvarvi - credendo d'avervi
saggiati, certo v'avrò digeriti... -

le dita son raspe, faccio del male.

E' vero, io amo la fine del mondo,
ché ciò m'insegna la luce ciecante
nella mia cella, se mai vi lampeggia
quando alle volte ferito vi torno
e - umile nella superbia - vi muoio.
Testardo, lì la ricevo immediata;

consola gentile, senza insegnare.


Qui si può ben vedere come già iniziassi a sperimentare con versi tradizionali. Endecasillabo docet! Naturalmente la mia preoccupazione primaria era pur sempre espressiva, e così vicino alla scuola ancora non mi sarebbe mai saltato in mente di mettermi a leggere di poesia in modo serio. Semplicemente, come parte del mio complesso di perfezione, non potevo più permettermi di ignorare "le regole della metrica". Il risultato è uno strano ibrido di forma chiusa (per via della metrica sostanzialmente tradizionale) e di forma aperta (per via del fatto che a mala pena sapevo, per dire, che cosa fosse un sonetto). Di questo verseggiare non ero certo maestro: diverse rotture di verso devono tanto al caso quanto al senso di assillo, di isterica insicurezza, di tensione continua che m'imponevo di trasmettere. Mi piace però menzionare che già allora, in sì compromessa (e forse un po' comica) situazione, ero pronto a coniugare questo tentativo di schiettezza ascetica con l'idea di un sovrasensibile che è in fondo solo felice, ottuso: che non insegna. Per quella via più avanti avrei forse trovato cuniculi sotterranei capaci di portarmi oltre il cerchio delle "montagne della follìa" - quanto a dire il sovrasensibile stesso.

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