mercoledì 7 maggio 2014

Il desiderio impotente


Il desiderio. L'etimologia tradizionale riconduce a de-sideo, ovvero "sono lontano dalle stelle", quindi mi mancano i loro presagi, o "osservo intensamente le stelle", per trovarne; altri, più banalmente, ci ricordano de-sum, "sono mancante". Qui, più che dire che l'etimologia tradizionale è migliore, dovremmo forse dire che è necessaria. Emerge infatti come prodotto della nostra stessa storia un'emancipazione del desiderio dalle forme basilari della cieca intenzionalità animale - fino a che esso, quale fatto fondamentale di un corpo già sempre anche storico e interpersonale, contribuisce a creare la persona che oggi tu sei qui a leggere. Il desiderio, quindi, si distingue dal bisogno. Il bisogno riconduce alla dipendenza, ad una soggettività meccanica o derelitta (deietta), alla passività; in questo è simile al dolore. Il desiderio al contrario è già un atto razionale, perché comporta il sollevare lo sguardo e cercare in quell'invisibile che è lo spirito stesso. Il Buddha, turbato dall'assillo ossessivo dei bisogni, desidera, nei fatti, liberarsene.

Il desiderio impotente. Come a dire, il suo arresto: l'incontro con la delusione, il fallimento, l'offesa, la maleducazione, la prepotenza, la perdita che montano tutto intorno e mettono in questione la stessa legittimità del soggetto desiderante come cercatore. Come forse in una prossima vita troverò e capirò meglio in Lacan, il desiderio sempre si rivolge all'"Altro";  vale a dire, costitutivamente noialtri ci fissiamo sulle stelle, nel senso di un orizzonte di continua ricerca e rinnovo del venire-al-mondo che, come uomini, solo l'altro essere umano, col suo linguaggio (il Verbo?) ci può accordare. Ma il desiderio diventa impotente quando l'Altro cessa come magnetismo erotico (il Motore Immobile), e ci sorprende, vero monstrum, come limite opaco, duro, non responsivo, che si sottrae al nostro linguaggio. Ecco perchè è l'incontro con l'altro che, orizzonte di ogni desiderio, rappresenta già sempre anche il pericolo estremo del peccatum, dell'αμαρτία (l'errore come scandalo interiore); e quindi: del trauma ("l'inferno sono gli altri"; hedgehog dilemma).

Quando ciò a me accade, ecco che, se non voglio cadere nelle secche della depressione (su cui prima o poi tornerò), ho l'opzione di ricorrere all'utopia. Il desiderio impotente rilancia il nulla sul piatto. Ad esempio, vorrei vivere in un mondo in cui tutti capiscono che la gioia compartecipe è l'unica gioia che si lascia godere senza resto; vorrei vivere in una società fondata sui valori dell'intelligenza, e non quelli dello schiavismo e dell'ipocrisia del sangue; vorrei che la finissimo con l'indifferenza alla nostra stessa vita; vorrei essere amato per quello che sono, non (forse, eventualmente) per quello che faccio; ma vorrei che quell'amore fosse anche libero, invisibile, estatico, non oppressivo, quasi, benianamente, pornografico (amore come lasciarsi dare). Vorrei parlare con gli animali, che sono miei amici, anche se non lo sanno. Allora, in questo dislocarsi vagamente alienato del sub-iectum deietto nella direzione della fabbrica di un inesistente limite contro il limite, ritrovo al tempo stesso una misura di chi sono, di che ci sto a fare - vale a dire: di cosa muove e dà senso al mio proprio desiderare. Come insegna Hegel, l'alienazione è la forma della liberazione del positivo; così, fuoriesco dal chiaro per tastarmi e ricompormi. Ma eventualmente quello stesso utopico, cari amici, dovrà morire.

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