mercoledì 2 aprile 2014

Prospettive storico-psichiatrico-teoretiche sul buon caffè invernale (parte II)

Filosofia del linguaggio

Secondo: piccola teoresi dell'incontro come reciproco dono.

Torniamo ora al momento del caffè in quanto tale. Il carattere feticistico del capitalismo può forse spiegarne la storia; il fondamento neurologico dei nostri stati di coscienza può forse darne una caratterizzazione strutturale. Ma non dimentichiamoci che, in quanto esseri umani, dobbiamo sempre proiettare ciò che per noi ha valore su un orizzonte di trascendimento del conosciuto. Quel momento in cui incontro il barista, lo saluto, vivo con egli un reciproco ri-conoscimento, con tutto il suo carico affettivo di risveglio di un'acuta - per quanto sempre in divenire - percezione del senso della vita; quel piacere che inizia e forse quasi consiste nel fisiologico - ma che irriducibilmente appare come altro - io dico che non può in alcun modo essere ridotto ad una spiegazione scientifica. O, per meglio dire, la spiegazione scientifica è una ri-velazione, per dirlo heideggerianamente, di una verità che costitutivamente trascende lo spiegare. Ci sono stati momenti in cui, incontrando il barista, ho visto nei suoi atti un invito a comprendere problemi che fino a quel momento mai avrei potuto immaginare.
Non dico in fondo niente di nuovo: l'epopea della fenomenologia novecentesca si basa, al di là della diversa consistenza metafisica o antropologica delle varie posizioni, proprio su questo fondamentale riconoscimento. Mi distingue da essa - per quanto so di questi argomenti, per me ancora poco esplorati - un concetto squisitamente wittgensteiniano (e che poi sto ritrovando in Hegel) della vacuità e in ultima istanza dispensabilità del fenomeno come datità, come autoevidenza, come, per l'appunto, fenomeno stesso. Di fatto, io credo, il fenomeno è prima di tutto un termine del linguaggio e finanche un concetto, e dunque un qualcosa che preesiste e sopravvive al suo essere percepito e che ha le sue radici nella logica della vita, prima che nella percezione (sebbene sostanzi di sè e dia per così dire il corpo ad ogni percezione). Ma se ora io volessi evitare di cadere scontatamente in una discussione sui pro e i contro dell'approccio fenomenologico a questo - filosoficamente vitale - problema, potrei infine rivolgervi una domanda: è possibile, o è magari persino già stata realizzata, una fenomenologia che permetta di tracciare il fenomeno come ciò che si dà al soggetto e che dal soggetto, non tramite un'intenzionalità trascendentale, ma tramite l'intenzionalità del linguaggio, riceve infine la propria forma?
In altri, più semplici termini: siamo noi in grado di comprendere il nostro stesso vivere come poesia?

(Dice Wittgenstein nella vecchiaia: "Le parole sono azioni." Ma se è così allora anche le percezioni! Infatti: "Come si può per tutta la vita viaggiare nello stesso piccolo paese e credere che non ci sia nulla al di fuori di esso!")

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