mercoledì 30 aprile 2014

Il desiderio trascende l'oggetto


Fame coacta vulpes alta in vinea
"Uvam adpetebat, summis saliens viribus.
Quam tangere ut non potuit, discedens ait:
"Nondum matura es; nolo acerbam sumere."
Qui, facere quae non possunt, verbis elevant,
Adscribere hoc debebunt exemplum sibi. "

Fedro

La volpa e l'uva: disprezzare ciò che non si può ottenere. Ma, un attimo, guardiamo bene. Un simile comportamento non è forse pieno di spirito? In effetti se c'è un'altra piccola lezione che l'approccio hegeliano all'esistenza avrebbe dovuto trasmetterci, è il fatto che molto spesso la ricchezza della vita si nasconde in ciò che il mondo affrettatamente liquida come vizio, stortura, fallimento, morte - in ciò che tu stesso, nel farlo, manifesti come tale. Ma questo è proprio lo straordinario: che quella liquidazione è pienamente giustificata. La volpe è un'ipocrita che mente a sè stessa. Dostoevskij chiosa: "La cosa principale è non mentire a te stesso. Chi mente a sè stesso e dà ascolto alla propria menzogna, arriva, alla fine, al punto da non saper distinguere la verità né dentro né fuori di sé. Ma questo porta all'indifferenza, verso se stessi come verso gli altri, e chi non presta più attenzione agli altri smette anche di amare." E' il fondo dell'abiezione: l'alienazione. La forma dell'aforisma dostoevskijano è più importante del contenuto: essa gesticola verso una condizione terminale, che definitivamente suona come una fine. Ma è proprio nel prendere tattilmente contatto con il limite invalicabile (con il peccato, o il fallimento), che lo spirito - sub specie linguaggio - già lo sopravanza, trasmogrificando la situazione, per così dire, sotto una nuova, dislocata, prospettiva. Nel dire, infatti, nel pensare, la primitiva intenzione, l'esperienza insuperabile, è già diventata un oggetto, pienamente manipolabile e digeribile - da altri, se non da me. Se l'uva è inattingibile, perché dovrei volerla? E immediatamente l'"inattingibile" scopre in sè la possibilità dell'"inutile". Da oggi il mondo non sarà più lo stesso. Ecco lo slittamento, l'affastellamento semantico che "ci fotte" (giusta Bene), ma che così facendo ci fa godere, per l'appunto, la sempiterna possibilità del desiderio. Altrimenti, come esseri vivaci e intelligenti, avremmo fallito fin dall'inizio: saremmo rimasti sotto al primo albero troppo alto, a salivare disperati, mentendo a noi stessi - con la verità.

(Ho l'impressione che La Fontaine cogliesse qualcosa di questo fatto, simpatizzando con la nostra rossa ospite:

"Certain Renard Gascon, d'autres disent Normand,
Mourant presque de faim, vit au haut d'une treille
Des Raisins mûrs apparemment,
Et couverts d'une peau vermeille.
Le galand en eût fait volontiers un repas;
Mais comme il n'y pouvait atteindre:
"Ils sont trop verts, dit-il, et bons pour des goujats. "
Fit-il pas mieux que de se plaindre?"

Proprio così: non ha fatto meglio che se si fosse lagnata?)

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