mercoledì 30 aprile 2014

Il desiderio trascende l'oggetto


Fame coacta vulpes alta in vinea
"Uvam adpetebat, summis saliens viribus.
Quam tangere ut non potuit, discedens ait:
"Nondum matura es; nolo acerbam sumere."
Qui, facere quae non possunt, verbis elevant,
Adscribere hoc debebunt exemplum sibi. "

Fedro

La volpa e l'uva: disprezzare ciò che non si può ottenere. Ma, un attimo, guardiamo bene. Un simile comportamento non è forse pieno di spirito? In effetti se c'è un'altra piccola lezione che l'approccio hegeliano all'esistenza avrebbe dovuto trasmetterci, è il fatto che molto spesso la ricchezza della vita si nasconde in ciò che il mondo affrettatamente liquida come vizio, stortura, fallimento, morte - in ciò che tu stesso, nel farlo, manifesti come tale. Ma questo è proprio lo straordinario: che quella liquidazione è pienamente giustificata. La volpe è un'ipocrita che mente a sè stessa. Dostoevskij chiosa: "La cosa principale è non mentire a te stesso. Chi mente a sè stesso e dà ascolto alla propria menzogna, arriva, alla fine, al punto da non saper distinguere la verità né dentro né fuori di sé. Ma questo porta all'indifferenza, verso se stessi come verso gli altri, e chi non presta più attenzione agli altri smette anche di amare." E' il fondo dell'abiezione: l'alienazione. La forma dell'aforisma dostoevskijano è più importante del contenuto: essa gesticola verso una condizione terminale, che definitivamente suona come una fine. Ma è proprio nel prendere tattilmente contatto con il limite invalicabile (con il peccato, o il fallimento), che lo spirito - sub specie linguaggio - già lo sopravanza, trasmogrificando la situazione, per così dire, sotto una nuova, dislocata, prospettiva. Nel dire, infatti, nel pensare, la primitiva intenzione, l'esperienza insuperabile, è già diventata un oggetto, pienamente manipolabile e digeribile - da altri, se non da me. Se l'uva è inattingibile, perché dovrei volerla? E immediatamente l'"inattingibile" scopre in sè la possibilità dell'"inutile". Da oggi il mondo non sarà più lo stesso. Ecco lo slittamento, l'affastellamento semantico che "ci fotte" (giusta Bene), ma che così facendo ci fa godere, per l'appunto, la sempiterna possibilità del desiderio. Altrimenti, come esseri vivaci e intelligenti, avremmo fallito fin dall'inizio: saremmo rimasti sotto al primo albero troppo alto, a salivare disperati, mentendo a noi stessi - con la verità.

(Ho l'impressione che La Fontaine cogliesse qualcosa di questo fatto, simpatizzando con la nostra rossa ospite:

"Certain Renard Gascon, d'autres disent Normand,
Mourant presque de faim, vit au haut d'une treille
Des Raisins mûrs apparemment,
Et couverts d'une peau vermeille.
Le galand en eût fait volontiers un repas;
Mais comme il n'y pouvait atteindre:
"Ils sont trop verts, dit-il, et bons pour des goujats. "
Fit-il pas mieux que de se plaindre?"

Proprio così: non ha fatto meglio che se si fosse lagnata?)

lunedì 28 aprile 2014

[Straziami, ma di baci saziami]



"Ma in verità la struttura dell’inconscio non è conflittuale, opposizionale o di contraddizione, ma interrogativa e problematizzante. Né la ripetizione è potenza bruta e nuda, al di là degli spostamenti che verrebbero ad investirla secondariamente come altrettante varianti, ma s’intesse invece nel mascheramento e nello spostamento intesi come elementi costitutivi a cui non preesiste. La morte non appare nel modello oggettivo di una materia indifferente inanimata, alla quale «tornerebbe» il vivente, ma è presente nel vivente, come esperienza soggettiva e differenziata fornita di un prototipo. Essa non consiste in uno stato di materia, corrisponde invece a una pura forma che abbia abiurato qualunque materia, alla forma vuota del tempo. (Ed è assolutamente la stessa cosa, vale a dire una maniera di riempire il tempo, tanto subordinare la ripetizione all'identità estrinseca di una materia morta, quanto subordinarla all’identità intrinseca di un’anima immortale.) Il fatto è che la morte non si riduce alla negazione, né al negativo di opposizione né al negativo di limitazione. Né la limitazione della vita mortale attraverso la materia, né l’opposizione di una vita immortale con la materia, danno alla morte il suo prototipo."

G. Deleuze, Differenza e ripetizione

domenica 27 aprile 2014

Mortal Coils

  

Come avrete già constatato, i miei pseudo-prosimetrini sono sempre introdotti da una breve introduzione autobiografica. L'introduzione autobiografica di oggi sarà: sì, a scuola sono stato davvero male.
Per oggi infatti non intendo aggiungere altro.


Batti e ribatti

fondono carni

sull'Altare-Forgia

della Macchina.


Acque bollenti

spume

ora vermiglie

- scarto del Sacrificio -

scricchiolano gocciolanti.


E già gli scarichi

gemono

questa pressione

che illimita

l'usura.


La diagnosi di un intero sistema paese si esplica qui come immagine terrea e perentoria. C'è, io credo, un innegabile legame fra l'estrema sofferenza, la visionarietà e la capacità profetica: in tutti i casi si tratta di sentire le cose molto profondamente - eventualmente poi balbettandole, senza ovviamente capire. Questa è, io credo, la grande risorsa dell'arte moderna: la forma si fa grido, compiutamente soggettivo, scavando così nel disagio e cercando di definirsi come verità, invece che nella sua rappresentazione. Di qui, peraltro, la tensione tutta tipicamente moderna dell'opera d'arte verso il "dire sè stessa" (che altri poveri di spirito in filosofia cercheranno di spazzare sotto il tappeto come "metalinguaggi" o spazzatura del genere).
Che altro dire? Le immagini di sofferenza, quando sono depurate della sofferenza stessa e si stagliano nitide contro il cielo di una pagina, di una tela, possono essere molto gioiose. Si tratta del puro piacere dell'espressione, che può emergere solo nell'estremo, e che smarrisce finalmente l'"io penso" di stocazzo per essere puramente soggetto che (si) parla.
Questo povero frammentino qui sopra non intuisce forse granché di tutto questo. Ma mi piace evocare qui, sul filo di una scrittura nervosa, ciò che io oggi, affettuosamente, vi posso vedere. Anche questo, in fondo, è amore.

mercoledì 23 aprile 2014

La decisione estrema


Non prendere la decisione estrema: questo oggi è il mio consiglio.
Me lo ripeto spesso. E' meglio abbondare in tutte le cose, elargirsi largamente. Tanto l'estremo qui non è il "tanto" rispetto a un "poco". L'estremo è il contrario dell'umile; l'estremo è assoluto. Quindi: impaurito da sè stesso. Non a caso gli antichi Leviti indossavano paramenti speciali per manipolare il loro Dio: bisogna prendere precauzioni, ché non abbia a toccarci, bruciandoci come lampadine attirate da una gigantesca Falena (è solo un'ombra, dopo tutto, che ci attraversa).
Precauterizziamoci, dunque, ché il fuoco non abbia niente di nuovo per noi.

Non prendere la decisione estrema. μηδὲν ἄγαν: il troppo non è una categoria quantitativa. Non misurare pertanto in eccesso le tue giornate, ma lasciale scorrere, dai loro aria nel loro vaso di sensi e di orbite. Perdonale se il vaso s'incrina, perché è terracqueo - in quanto tuo corpo, il risultato di te - e loro sono di tanto più grandi di qualsiasi altra cosa fra cielo e terra.
Sì, l'aria è sempre più grande dell'aria. Ma l'aria di cui parlo non si misura, ancora, in quantità. Nessun gas industriale la invade, soffocando i suoi figli: solo la decisione estrema.

Non prendere la decisione estrema; ché poi non è nemmeno una decisione, ma semmai un'intenzionalità di rinuncia ad ogni decisione. Non smettere di fallire, fallendo così il fallimento: la morte seconda. Non avere paura di ciò che si apre, fossero anche le tue carni, al sole, correndo come un selvaggio per non arrivare troppo tardi ad un appuntamento che, se fossi felice, ignoreresti. Che vita misera quella che si contempla arrancare senza fiato, come una cornamusa stonata appesa al muro. Ma anche il vaso di Pandora, ignorando il turbine moltitudinario di confusione (ma: una cosa gialla non è rossa, una cosa rossa non è verde), non è altro che Speranza.

La decisione estrema, che qui tu leggi, essendo, com'io un tempo, un forte e vigoroso sputo sul muro delle stelle, l'avrai riconosciuta a volte - ma solo per alcuni tratti - nella tua propria fantasìa, riflessa dalla fascisticamente neutra in-formazione: l'alpinista che non torna indietro, l'accelerazione totale, la droga senza piacere, il monaco Into the Wild di sè stesso, fino a sbrodolarsi addosso la propria stessa mente, piagnucolando come un ossesso "Hare Krishna" o "economia di scala". La decisione estrema non sono loro: perché anche loro - anche nel loro venire meno! - sono l'aria che respiri. La decisione estrema è la tentazione, puramente psicologica, di farla finita, con l'aria, tutta.

Abbi pazienza, insomma; non prendere la decisione estrema. Quanto a dire: non credere che una qualsiasi decisione possa essere mai estrema - se non quella che la vita stessa, eventualmente, prenderà per te (per mezzo di te) (su di te).

domenica 20 aprile 2014

Prodromo nevrotico

"Sia come sia",
"boh, vabbé",
pragmatiche parole del popolo,
per volare via, lontano...
non più qui, con codesto
crampo cretino in testa
che mi frena tutti i "sì",
come il sileno d'Atene,
fino, appunto, a morire...
così
          - senza neanche un bacio...

Guarda, non ci voglio pensare.
Una teoria penserò che il pensiero
mi riporti all'odorino del cacio.
Io posso fare senza il Tutto Intero!

mercoledì 16 aprile 2014

Krisis

Frida Kahlo

Quanto è facile avere paura del giudizio degli altri. A volte mi viene quasi spontaneo pensare - riducendosi a livelli da erista ateniese - che persino l'idea di Dio e del suo timore discendano da questo semplice fatto (e se non erro Levinas indicava qualcosa sulla divinità che è per noi il volto dell'altro).
A volte mi viene da pensare che tutti i nostri problemi derivino da questo.

Fenomenologia: trarre un senso da ciò che ci appare. Come trarre il sangue dalle rape. E' veramente fenomenologo un filosofo che non parli di ciò che vede, che pensa che ciò che vede parli da sè (il "trascendentale")? E d'altro canto non è forse ciò così tanto meno rischioso che trarre il sangue dalle rape?
C'è poco da fare, abbiamo paura del giudizio degli altri.

In questi giorni ho scritto un appuntino su Nietzsche e Hegel e il cristianesimo. E' stata una cosa un po' sofferta. In effetti se ho molto rispetto per Nietzsche è perché ha così poco tenuto conto della paura del giudizio degli altri da arrivare a farsi anche più male di quanto se ne sarebbe fatto rimanendo chiuso in una qualsiasi coscienza infelice. Se poi ho molto rispetto per Hegel è perché è stato così tanto spudoratamente fenomenologo da voler provare a insegnarci che le rape non solo sanguinano, ma sono pure umane.
Io invece non sono sempre coraggioso o scriteriato come loro. Per questa ragione oggi vorrei porre questo problema: la paura degli altri. Non pensate forse che essa possa avere a che fare con fenomeni come la depressione, l'ossessività, il senso di colpa, le reazioni isteriche? In effetti io credo che la paura degli altri sia qualcosa di molto profondo, impiantatosi da qualche parte fra la nostra spontanea propensione all'eros come creatività e desiderio fisico del riconoscimento dell'altro e una profondissima ansia che l'umanità che ci è stata donata dal contatto amoroso con quella medesima alterità ci venga sottratta proprio lì dove vorremmo esibirla trionfanti. E' come la paura che le ali mediante le quali stiamo volando si tramutino in un peso che ci faccia sfracellare al suolo; ma il suolo è invisibile. Dopo tutto, si tratta di una paura peggiore della morte. Non è essa infatti la morte della possibilità di desiderare liberamente? E non è forse il desiderio ciò che permette alla vita di ridere in faccia ad ogni morte?

Nietzsche alle soglie della sua follìa definì il cristianesimo "l'unica grande maledizione". Perdeva forse in quei giorni la battaglia di una vita, ma per lo meno aveva l'ultima parola sul nome da lui dato a quel complesso psico-patologico che dai genitori in avanti lo aveva condannato a vivere il proprio desiderio come lacerante problema. In effetti, forse per lui il cristianesimo era ciò che meglio compendiava "gli altri". Hegel, che a riguardo non ho ancora letto, non a caso forse includeva il cristianesimo nello spirito assoluto, questa sezione per noi così sospetta della Fenomenologia, come "religione assoluta". In questo forse i due sarebbero stati d'accordo. E' questa forse la cifra di tante nostre crisi, dalla paura di scrivere un post al progressivo sfarinamento del corpo sociale: l'assolutezza altrui sopravvive alla fine delle sue giustificazioni.

domenica 13 aprile 2014

La bellezza che amo

Lo scenario è la mia prima giovinezza; il tema è l'amore sensuale come auto-trascendimento del corpo in un'esperienza creativa puramente umana. Stavo in un monastero buddhista a fare un ritiro di meditazione. Lì incontrai una volontaria, di origini asiatiche, le cui carni rosee e gli occhi perfetti stimolarono in me reazioni kundaliniche inconsulte. Pensieri impuri che ti assalgono in un ritiro buddhista: storia dell'umanità storica. Non le parlai mai, ma scrissi una poesia, di getto, che poi lasciai su un davanzale del monastero-castello, in un impeto di romanticismo decadente che - ma non l'avrei mai ammesso - già gridava vendetta contro ogni forma di religione. Da allora questa piccola manciata di settenari è rimasta come una sorta di vessillo ad indicarmi una concezione della bellezza tanto immatura e astratta - appena abbozzata, come un germoglio - quanto, per qualche ragione, per me sempre attuale.


La bellezza che amo è
di quell'unico corpo
steso fra terra e cielo
allo sguardo una sera
offerto, sì qual vero,
senza resto, un fiore.
Di lì nei miei pensieri
e nel cuore diventa
apertura, nè invano
al momento m'appare
quella carne coi drappi
e gli odori a giacere.
Vuoti sì, certamente,
ma pieni dell'acque
onde alle volte io stesso
ebbi la vita, io pure
corpo maturo al sole
a cadere nel fumo.


“È per me una melanconica felicità vivere in mezzo a questo gomitolo di stradicciuole, di miserie, di voci: quanto piacere, quanta impazienza e brama, quanta assetata vita e ebrezza della vita si rivelano qui in ogni istante! Eppure, per tutti questi esseri tumultuosi che vivono e hanno sete di vita, ci sarà presto tanto silenzio! Come alle spalle di ognuno sta la sua ombra, la sua cupa compagna di viaggio! È sempre come nell’ultimo momento, prima della partenza d’una nave di emigranti: abbiamo da dirci più cose che mai, l’ora incalza, l’oceano con il suo desolato silenzio attende impaziente dietro questi rumori, così bramoso, così sicuro della sua preda! [...] Come è strano che questa unica sicurezza e solidarietà non abbia quasi nessun potere sugli uomini, e che essi siano ‹ben lontani› dal sentirsi quasi la confraternita della morte! Mi rende felice vedere che gli uomini non vogliono assolutamente intrattenersi nel pensiero della morte! Sarei ben contento di far qualcosa, per rendere loro il pensiero della vita cento volte ancora ‹più degno di esser pensato›.ˮ

F. Nietzsche, La gaia scienza

(Ma questo pensiero brancolante, così vago e fallibile, lanciato verso l'orizzonte irraggiungibile e perciò stesso così infinitamente voluttuoso - non è esso stesso il cuore della poesia?
Ma se così stanno le cose - dove sta, la poesia, in questo scritto che vi ho appena consegnato?)

giovedì 10 aprile 2014

[Introibo ad altare dei]

Geppetto felice

"L’essenza dello Stato come della religione è la paura dell’umanità di fronte a sè stessa."

F. Engels, citato da C. Schmitt in Teologia politica

(Ma se la teologia di fatto si risolve in una politica, non potremmo forse iniziare a fare politica come se fosse una teologia?)

mercoledì 9 aprile 2014

Profaino

Gli angeli sono scuri, fanno paura a chi non ci vede chiaro. Si vestono di luce per sedurre i boccaloni, per colargli in bocca il nettare di un amore intossicante. Se dismettono gli abiti li concepisci quali condottieri babilonesi, il volto ambiguo - li puoi solo sognare - ma scuro e irato, come padri di famiglia. Questo qui, in particolare, mi viene a dire che dovremo infine soccombere ad atroci sofferenze: è necessario. Rimembro un altro sogno depositato nel corpo e tra le membra ricordo generazioni infinite di esseri compressi in complesse piramidi, per vaghi eoni, su pianeti altri. Qualcuno me lo mostrava in chiave esoterica. "E’ terribile cadere nelle mani del Dio vivente!" Vorrei liberar - ribellarmi, ma sum dignus, per cui chiudo il becco. Non posso più cinguettare. Passa del tempo. Vedo centocinquantamila cinguettii andare al macero, carne già morta da viva per astratta necessità meccanica industriale, e mi avvedo che il sogno concepiva ciò che io non riesco nemmeno a capire. Profezia come rullo compressore: il corpo si è fatto flatus vocis. Il dolore è l'unica cosa per sempre invisibile - ma stavolta è tutto vero, e infatti a me non succede un cazzo. C'è consolazione nel rendersi conto che il mondo non finisce, che l'apocalisse è su questa terra sempre il destino d'altri? Da un lato l'orrore, dall'altro la noia. Qualcuno mi dice che ha paura per la sua incolumità per via di partiti politici: la parte per il tutto. In questa eterna sineddoche de noartri parte-cipare significa fare a pezzi un pulcino. Non so come fare, forse dovrei attivarmi. E' da ieri che vorrei vomitare, ma non so come fare.
(Nel sogno poi l'angelo tornava a rompere, perché di fronte al dramma mi vedeva integro nel prendere parte alla mia comunità. Non coglieva la cosa - ha le gambe rigide, non può abbassarsi - e non comprendeva. Io ringhiavo, e fra i denti sfuggivo a me stesso: "TU NON SAI COSA VOGLIA DIRE PERDERE OGNI SPERANZA". L'angelo prima pensava di tagliarmi la gola, poi cedeva per rispetto e mi augurava che potessimo reincontrarci "nel Consiglio": dopo la morte predetta. Ma se a morire sono i pulcini io rimango senza consiglio, con la lama fra i denti)

domenica 6 aprile 2014

(senza titolo) (2013)

Riponi dunque codesto compasso;
accatastiamo gli strumenti
oltre il cerchio della luce
agli animali,
ove si va a tatto e se è inverno
                                                 dolenti.
Ah, esser come gli animali: i
salvatici cani la domenica mattina,
generosi, latranti,
cacanti, odorosi...
                                   ansiosi di invaghita selvaggina.
Quasi mi chiedo se il problema sia...

                                                            di verso.
(quest'inciampo del pensiero,
ostacolo ostinatamente ricercato
tardi alla sera, il culo inchiodato
avaro alla seggia...)
- ma facendo così ho già divagato.
E allora via,
vieni, andiamo via da qui,
per i campi di quel verde bagnato
che ricordi ancora inerme,
laggiù ai vagiti del peccato, la prima
comunione... 
già soli al sole freddo e internale,
fra crinoline di nebbia
cocciuta ai bassi delle strade,
quando strano era ideare
                                             il potere,
                                                                strano
chi vedevo vedermi osservare
l'ostia in processione dall'altare
                                                    - il corpo
di Dio.

Fin da allora la forma prese a puzzare.

Vorrei, te ne prego, ritrovare
il colore viscerale,
                                   l'aria
                                   ch'arieggia la mente,
un caldo centrale temporale.

L'emozione.

                      Qualcosa che cambi
incessantemente
                                      - come il tempo;
che come il tempo ci corrisponda.
Ricordi quando giacendo ai
colpi di cannone della sorte
del cervello, il tremendo dolore
fissandoti a giorni sdraiato
sotto al circolo del sole in quella
                                                                      brandina,
                                               davanti casa...
quanto
              pieno fu il senno
di quei sottili cambiamenti?
I cenni
             affabili
                          della brezza
             tranquilla,
                                 della folata
            di vento, la luce a nascondino
colle palpebre silenti, febbricitanti...
                                                            insegnandoti
                                   a guadagnarti il pane,
scampare la giornata...

Se ricordi, lascia andare troppi accordi:
sii poeta,
quanto a dire scrivi del che
passa dal mattino alla sera
agli angoli delle strade che tu
                                                appropriatamente
assiduo frequenterai;
come se fossero quelle brezze, quelle
carezze
              - come fossero nuvole
che sogni nel dormiveglia sporco
dopo una festa.
                               Basterà una parola
a far musica acre, fumosa,
                                                popolare, persino,
figurazione già
matura,
prima che la mola e la lima
                                                 che troppo osa
la insuperbiscano e resti
                                                 sola, sola,
troppo sola.
(sola come me, quando fuori
cerco il calorfiamma di un sorriso,
quasi le donne mi intuissero
errori o orrori che io non vedo,
quaggiù nel deserto mio decennale.
E sono strade, ed è luce serale
e freddo).

E sono strade, ed è luce serale
                                                  e freddo:
scusami, parlo troppo
di me
e parlo male. Neanche so il perché
(ne se'l sapessi potrei'l dire).
Ma prova, ti prego, a ululare
un ultima volta, come il cane che sei,
                                                              oltre
quel dire,
                         perché
- perdona l'ardire -
                                     c'è bisogno.
Lascia stare la parola.
                                     Soffia
sulla brace del cuore e una creatura
                                                             ascolta
(come il fumo)
                          nascere, densa
non dalla misura           -          non dal comparare
                          ma da questo dolce naufragar del sentire,
giù
giù
in quel mare che non pensa.

(Prova finché l'ansia non si addensa!)

venerdì 4 aprile 2014

[Le origini della specie]

L'io, questo al di là dell'Altro...

Il fenomeno, questo al di là del concetto...

... non sono anche immediatamente la "vita vera", di contro all'"astratta filosofia"?

Così impariamo che la verità ama nascondersi, sì - ma soltanto quando la trovi (perché, io credo, ama essere trovata fino all'eccesso).

mercoledì 2 aprile 2014

Prospettive storico-psichiatrico-teoretiche sul buon caffè invernale (parte II)

Filosofia del linguaggio

Secondo: piccola teoresi dell'incontro come reciproco dono.

Torniamo ora al momento del caffè in quanto tale. Il carattere feticistico del capitalismo può forse spiegarne la storia; il fondamento neurologico dei nostri stati di coscienza può forse darne una caratterizzazione strutturale. Ma non dimentichiamoci che, in quanto esseri umani, dobbiamo sempre proiettare ciò che per noi ha valore su un orizzonte di trascendimento del conosciuto. Quel momento in cui incontro il barista, lo saluto, vivo con egli un reciproco ri-conoscimento, con tutto il suo carico affettivo di risveglio di un'acuta - per quanto sempre in divenire - percezione del senso della vita; quel piacere che inizia e forse quasi consiste nel fisiologico - ma che irriducibilmente appare come altro - io dico che non può in alcun modo essere ridotto ad una spiegazione scientifica. O, per meglio dire, la spiegazione scientifica è una ri-velazione, per dirlo heideggerianamente, di una verità che costitutivamente trascende lo spiegare. Ci sono stati momenti in cui, incontrando il barista, ho visto nei suoi atti un invito a comprendere problemi che fino a quel momento mai avrei potuto immaginare.
Non dico in fondo niente di nuovo: l'epopea della fenomenologia novecentesca si basa, al di là della diversa consistenza metafisica o antropologica delle varie posizioni, proprio su questo fondamentale riconoscimento. Mi distingue da essa - per quanto so di questi argomenti, per me ancora poco esplorati - un concetto squisitamente wittgensteiniano (e che poi sto ritrovando in Hegel) della vacuità e in ultima istanza dispensabilità del fenomeno come datità, come autoevidenza, come, per l'appunto, fenomeno stesso. Di fatto, io credo, il fenomeno è prima di tutto un termine del linguaggio e finanche un concetto, e dunque un qualcosa che preesiste e sopravvive al suo essere percepito e che ha le sue radici nella logica della vita, prima che nella percezione (sebbene sostanzi di sè e dia per così dire il corpo ad ogni percezione). Ma se ora io volessi evitare di cadere scontatamente in una discussione sui pro e i contro dell'approccio fenomenologico a questo - filosoficamente vitale - problema, potrei infine rivolgervi una domanda: è possibile, o è magari persino già stata realizzata, una fenomenologia che permetta di tracciare il fenomeno come ciò che si dà al soggetto e che dal soggetto, non tramite un'intenzionalità trascendentale, ma tramite l'intenzionalità del linguaggio, riceve infine la propria forma?
In altri, più semplici termini: siamo noi in grado di comprendere il nostro stesso vivere come poesia?

(Dice Wittgenstein nella vecchiaia: "Le parole sono azioni." Ma se è così allora anche le percezioni! Infatti: "Come si può per tutta la vita viaggiare nello stesso piccolo paese e credere che non ci sia nulla al di fuori di esso!")