mercoledì 26 marzo 2014

Prospettive storico-psichiatrico-teoretiche sul buon caffè invernale (parte I)

"Bar" è un termine di etimologia incerta. Unanimemente riferito all'inglese rinascimentale, per alcuni sembra riferirsi alla "sbarra" (bar) a cui ci si appoggiava fin da allora per prendere qualcosa da bere, per altri si riferisce alla sbarra che in America Latina separava il bancone alcolici dal resto del bar, mentre per altri ancora sembra riferirsi alle sbarre sopra il simbolo degli alcolici nel periodo in cui in Inghilterra era proibito il loro uso. Poco male: io sono, per varie ragioni, astemio. Per me il bar è principalmente luogo del caffè, specialmente in inverno, quando la sosta fumosa fra le luci incerte delle strade presso il bancone familiare significa tanto momento di riposo quanto energetica e scaramantica consumazione d'un amaro intruglio nero.
Riflettevo nei giorni scorsi su quale potesse essere l'argomento del primo pensiero di questo blog; ero al bar e stavo prendendo il caffè. Familiare, il barista mi veniva in soccorso con sollecitudine, e, doverosamente ringraziato, mi regalava l'usuale piccolo cameo di relazione sociale ancora vagamente genuina. Ed ecco che ho pensato: inizierò con umiltà (aderenza all'humus, alla terra di noialtri); inizierò proprio da ciò che provo e penso in questo momento, così apparentemente banale, eppure così ricco di spunti riguardanti il senso della nostra vita. Qui ne menzionerò un paio.

Primo: la relazione fra la mia gioia baristica, il capitalismo, la psichiatrìa e l'eros.
Vado al bar a prendere il caffè piuttosto spesso da poco meno di tre anni; prima lo facevo molto raramente. Ho iniziato perché, quasi per caso, ho scoperto come d'inverno, quando la tendenza ad una certa depressione clinica si fa in me piuttosto netta, la bevanda in esame avesse il potere di regalarmi un certo sollievo umorale. Ho continuato perché, pian piano, il piacere di spendere qualche moneta di propria proprietà per regalarsi un certo sollievo e un momento di riposo ha acquisito per me un valore di intimo soddisfacimento personale. Sorge quindi la domanda: quanto c'è di masturbatorio in questi nostri piccoli piaceri economici?
Potrebbe sembrare una domanda oziosa, per non dire essa stessa masturbatoria, se non fosse che uno sfondo di pensieri la prepara: in primis la questione ancora non completamente esplorata del rapporto fra eros e capitalismo. Si sa che, da Marx in poi (vado per relata, non ho ancora avuto modo di leggerlo), il capitalismo si regge sulla creazione di valore tramite lo sfruttamento del lavoro salariato allo scopo di vendere merci ai medesimi lavoratori ad un prezzo creato ad hoc e far così lievitare il capitale. E' il prodromo al cosiddetto "feticismo della merce" - quello che noi oggi frettolosamente etichettiamo come consumismo. La domanda che ponevo poc'anzi, se generalizzata, si potrebbe forse porre in questi altri termini: quanto di questo feticismo e del consumismo su cui si regge la nostra (morente) forma di vita si fondano sul bisogno di compensare un paralizzante deficit affettivo - e quindi anche erotico - che poi forse, tramite ulteriori indagini, potremmo scoprire essere causato dalla medesima forma di vita borghese inauguratasi con la fine delle società religiose tradizionali? Questo per me è un argomento molto attuale, su cui ho già scritto qualcosina e su cui, se il dio vorrà, in futuro cercherò di scrivere ancora. E' bastato un caffè, con il suo timido piacere, a richiamare tutto il treno fino alla mia consapevolezza.
E, parlando di consapevolezza, vorrei aggiungere una piccola appendice: qual è il ruolo della costituzione neurologico-psichiatrica dell'uomo in questi fenomeni? Si potrebbe ad esempio sostenere che all'origine della mia abitudine caffeistica ci sarebbe semplicemente il suo piacevole effetto serotoninergico (o qualcosa del genere), a compensazione dei miei squilibri umorali, che poi per effetto pavloviano ingloberebbe l'intero complesso di azioni connesso alla bevanda. Ma, e qui sta il punto, come può questo punto di vista scientifico (e forse già scientistico) interagire con le precedenti osservazioni, che di fatto instaurano una dialettica di senso a mo' di ponte fra la bevanda e il complesso dei miei usi intorno ad essa? E, di nuovo generalizzando: quanto del disturbo psicologico si innesta su un retroterra psichiatrico, e quanto di quel retroterra psichiatrico - a sua volta - si innesta forse su fenomeni socio-culturali spesso misconosciuti e così ampi da risultarci invisibili? Avendo molto a che fare con la psichiatrìa, ho la netta sensazione che in questo campo si dovrebbe fare di più.

Il che, in qualche modo, mi introdurrà alla seconda parte.

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