lunedì 6 ottobre 2014

[Messaggio di servizio definitivo]

Torno finalmente a scrivere la mia su lidi elettronici per segnalare che finalmente sono riuscito a trovare tempo e volontà per trasferire la mia dimora da Blogger a WordPress. Contestualmente, come probabilmente avrete modo di vedere, cercherò anche di far sì che i pensieri da me pubblicati siano più fruibili, più personali, più legati all’intimo di ciò ch’è la ricerca d’un poeta impenitente. Il programma, per il resto, dovrebbe più o meno rimanere lo stesso.

Tempo permettendo ho ancora l’idea di aprire un blog sorello in inglese per le questioni più specificamente filosofiche; ma vedremo.
Perintanto vi auguro una moderata quantità di gioia e successo (quanta ne possiate sopportare), e vi rimando, se tutto va bene, a fra una settimana.

Il link del nuovo blog, da oggi fino a nuovo ordine, sarà http://studiodalvero.com/

venerdì 15 agosto 2014

[Messaggio di servizio]

In attesa di riorganizzare meglio questa attività (mi piacerebbe trasferire qualcosa in un blog fratello in inglese, ma ancora non so bene come) e per via di impegni materiali e soprattutto immateriali (non dimandare), le ferie sono di necessità prorogate ancora un pochino.

Se tutto andrà bene, ci si rivedrà in qualche modo a settembre.

giovedì 3 luglio 2014

[ferie per chiuso]


Cenni di orientamento nel casino che è la cultura (parte III)


Quello che rimane.

Non rimane più niente da dire. Idealmente, del resto, qui non rimarrebbe più niente proprio. La prateria della disappropriata produzione di senso in seno alla verità umana è qualcosa di strutturalmente non delimitabile. In effetti, può darsi che nel percorrerla saremo magari visitati dalla peculiare consapevolezza che è la produzione stessa che dice noi - mercé il saussuriano e poi ancor più wittgensteiniano rapporto fra significante, altro e significato - di modo che il lavoro stesso trovi la propria creatività nello sgambettarsi e giocarsela con il "supposto sapere"; una sorta di plusvalore del pensiero, per il quale forse non dovremmo più nemmeno pensarlo attivamente. A sorpresa, la meta della nostra odissea sarebbe allora la dispensa dall'occuparsene. Ciò non sarebbe altro che il rovescio del limite interno ad ogni discorso culturale, inteso come il nocciolo duro che "non cessa di non scriversi" nel tuo parlar d'altro, e che altro non è, in fondo, se non la verità di ciò che, parlando, stai facendo. La filosofia, il discorso metadisciplinare o la logica del tuo lavoro non sarebbero altro che la dicibilità stessa di questo nucleo, da effettuarsi al momento di aprire un discorso nuovo; una logica, verrebbe da dire, come attrito costitutivo, la cui stessa formulazione provocherebbe un mutamento di paradigma, perché si limiterebbe a dire qualcosa che finora non era possibile pensare ma che era al tempo stesso il corpo superevidente della pensabilità. Questa logica forse, nel suo essere perennemente in viaggio, perennemente priva di un contenuto che non sia il proprio autosuperamento, potrebbe essere adatta a rendere l'idea del processo di crescita culturale. Può darsi che un autore come Deleuze, per citarne solo uno, abbia lavorato in questo senso (per quanto io per ora ne sappia). Come può darsi che il tuo stesso viaggio sconfesserà tutto quanto hai letto qui. Ma quello che qui hai letto non sarà stato vano. Finalmente, infatti, tu non potrai non rimasticare pure me, gettandoti ancora una volta au fond de l'Inconnu pour trouver - di nuovo - du nouveau.

PS. Carmelo Bene era un genio e un maestro terrificante (e pessimo). I miei link, se tutto va bene (male (Bene)) vi forniranno diversi incredibili problemi.


Prossimamente su questi schermi: niente.

Con la presente, opportunamente in ritardo di un giorno - ché la puntualità m'è donna - si chiude una prima stagione breve (come il secolo) di questo piccino bloggino. Gli affari riapriranno pressappoco intorno a ferragosto. Abbiate nel frattempo pietà di voi stessi, e spendete, voi, miei due dolci lettori (e qui, purtroppo, non è modestia) un ricordo per me!

sabato 28 giugno 2014

La sosta (festa del primo maggio) (primavera 2014)

Viale dei Colli si snoda geometrico.
Ma come sono...
La vita umana è agghiacciante.
Ricchezza dello spirito. La mente.
Rallenta.
Mi fermo? Il tempo è la forma del...
Il pensiero è, la forma è,
del sè stesso, o era...
Via mi fermo. Poi
mangio, meglio qui.
Il sudore addosso, esausto
degli amici laureati
d'altri, sessualizzati,
vitrei: la festa di oggi. Mi fermo
nel vento cavo della vetta,
a San Miniato al Monte,
a camionate i turisti sul piazzale,
come la vertigine d'Abelardo
- prima e dopo -
si squadernò sola
nella follìa di Notre-Dame.
Lui, lei, lui, lei, lei,
occhi da orientale
"che nascondono emozioni e
sguardo limpido d'aprile",
a scanner,
darkly, in the grotto,
to incubize a Delfo fiorentina
- vitrei;
ove poi esplode una stella danzante,
del caos primordiale,
e mi ci calassi, magari,
stark raving mad, contento
di questi accordi lunari
(io monitor neon ragazzino),
che sulla scalinata risonan,
a tanta parte della città;
guardala: lì,
che s'apre ben bene, rotonda,
primordiale, dal passato che è,
al futuro che sarà stato... o
com'è che era? Si protendeva?...
Ma che vento, veramente, ora mi porta via, via,
- ma che freschino -
e chissà, eh, se dopo lo scriverò,
(un bar)
con la paratassi d'Ezra e Adorno,
o senza,
wrought, la foudre, Byron,
classico ottocento.
O mai.
Solo,
con la folla che brusìa cocciuta,
sbrodolante sulle note, sento...
un'emozione - buono via -
forse.
Santo vuol dir separato;
colare, così, a picco, lento.
Pago.

Come sono solo. Che ore sono?
Verso le otto, mangiato un panino,
ho speso qualcosa alle porte della notte.
La macchina, sopra, dai frati,
via via andiamo: farò
a casa, giù,
là sotto.

mercoledì 25 giugno 2014

Cenni di orientamento nel casino che è la cultura (parte II)

La disciplina del guado

Benvenuti nella cultura in senso proprio. Ho la sensazione che non molti arrivino da queste parti, professori compresi. Qui lo scenario si complica: infatti qui cultura significa esigenza di coltivazione di sè mediante il forgiarsi di una strada nel caos, o anche l'inverso, che è la stessa cosa. E' essenziale che ci si renda conto che questo tipo di perdizione fa parte integrante del processo, e anzi nel corso del tempo ne diventerà la parte più interessante. Lo so, all'inizio il tutto era nato per l'esigenza di una "risposta", di una "soluzione", di un "interesse" specifico, che si presumeva avesse una fine. Ma quella era l'esca necessaria perché tu uscissi dal tuo guscio. Ora, invece, sei fra i grandi.
Traccerò anche qui tre consigli di base - in questo caso, però, non tanto in un ordine più o meno cronologico, ma semmai in un ordine di priorità logica: vale a dire, poiché i procedimenti che si metteranno in atto in questa fase sono più psicologici che materiali - non lineari e scarsamente algoritmizzabili - quelle che darò sono delle vaghe linee guida su dei principi fondamentali che potrebbero anche susseguirsi cronologicamente, ma che più in generale varrà semplicemente la pena di tenere presenti in quell'ordine di priorità. Va da sè che, in questa fase ancora più che nella precedente, ogni pretesa di completezza è volata fuori dalla finestra.

- Primo: rinunciare alla conoscenza. Questo passo è già piuttosto difficile, ma al tempo stesso è cruciale. Molte persone, giunte da queste parti, tendono naturalmente a cercare opinioni "forti" tramite cui assicurare la propria illusoria identità ad un'ipoteca di sicurezza (la cui verità ovviamente è la schiavitù). Che sia esoterismo, politica o l'ultima moda in tema di filosofia della mente - tutto pur di non prendere atto dell'infinito. Solitamente - e parlo anche per esperienza personale - questo tipo di reazione va a infilarsi in orrendi cul de sac fatti di enormi difficoltà psicologiche stirate fin quasi al punto di rottura. Guardati dagli eccessi della "coerenza". Al contrario, il processo che a noi qui interessa è un po' diverso: di nuovo, rinunciare alla conoscenza. Questo significa che si deve perdere ad un certo grado la fiducia che finora si era riposta in ciò che si stava studiando e apprendendo, e così facendo si deve accettare di perdere il potere (del tutto immaginario) che si pensava ad esso connesso. L'oggetto inafferrabile del desiderio (sì, di nuovo il vecchio primo punto), da vicino che sembrava, di colpo si fa completamente inafferrabile. E' un colpo basso, ma lo devi buttare giù. Avrai la sensazione di aver studiato e penato per niente, ma lo devi buttare giù. Quando avrai cominciato a dimenticare i dettagli o i libri o le nozioni imparate a memoria, avrai la sensazione di essere al punto di partenza (non è vero niente): butta giù. Il momento della confusione totale e del senso di essere completamente ignorante di tutto è il battesimo del fuoco di cui hai bisogno.

- Secondo: accorgersi della vita. Quasi inevitabilmente il passaggio alla sfera dell'infinito e la crisi della conoscenza come acquisizione cumulativa di controllo che esso comporta ingenereranno l'insorgere, all'interno di una sfera dell'io completamente investita nel "progetto cultura" - qualunque fosse la ragione originaria per investirvisi - ampie difficoltà psicologiche. In altre parole, questo è il momento in cui la vita inconscia, che, tramite il primo punto della prima fase, stava in effetti, non vista, alla base dell'avvio dell'intero processo, si riavvicina e quasi collide con la vita conscia, sfasciando le strutture di supporto del soggetto (che ancora non si comprende come impossibile e sempre da farsi). Questa fase è senza dubbio la più critica e dolorosa del processo. Può, in effetti, benissimo comportare il ricorso a psicoterapeuti e/o psichiatri vari. Il mio consiglio in merito è di non esagerare: si deve cioè comprendere che il loro ruolo può essere solo di coadiuvanti ad un riadattamento alla vita quotidiana; essi non possono risolvere il problema della "cultura" per te. Ma proprio l'incontro-scontro con la vita quotidiana deve diventare ora il tema centrale del processo. Quasi come se tutto quanto si fosse fatto finora fosse in effetti solo un elaborato trabocchetto per ricondurti a te stesso (non lo è, ma sembrerà così), la conseguenza primaria del reiterato rinunciare alla conoscenza, dell'alzare le mani e arrendersi, dello scoprirsi poveri, i più poveri, deve riportare violentemente il fuoco dell'attenzione proprio su ciò che nei mesi/anni/decenni precedenti era rimasto apparentemente sullo sfondo, negletto in quanto (si pensava) già superato: appunto, la vita quotidiana. La vita, viene da dire, "reale", di fronte a quelle che ora appaiono le "illusioni" della incontrollabile proliferazione dei punti di vista. Potrà sembrare, così facendo, di sigillare una definitiva rinuncia alla "cultura"; e sarà quasi così. Ma c'è un piccolo particolare di cui solo più tardi ci si ricorderà: tutti i problemi psicologici che ora stanno come diaframma fra te e la vita "normale" sono, in effetti, nient'altro che la raffinazione del tuo primo movente ad intraprendere la ricerca culturale stessa. Essi sono, a tutti gli effetti, il prodotto della tua ricerca, finalmente defunti dalla dimensione dell'astratto e nozionistico e in procinto di incarnarsi nella tua vita. A prenderli come la vera e propria tesi di laurea che ti aspetta, non ci si sbaglierebbe troppo, e questo anche se finora pensavi che si trattasse solo di studiare la storia della musica o l'etnologia dei nativi di Bali.

- Terzo: passare alla creatività. A questo punto, cioè, il compito, per quanto difficile e a volte doloroso, è segnato: si tratta di riuscire a far combaciare la dimensione patologica inaugurata dal disadattamento costitutivo frutto del passaggio alla sfera dell'infinito culturale con la propria vita concreta - fino, nel caso tu sia un genio e/o un po' folle, a non avere più quotidiano. A riguardo nutro la personale idea che ogni mezzo debba essere considerato lecito. Vale a dire che - fatto salvo un utilitaristico rispetto delle leggi e il massimo possibile di rispetto per gli altri, che dopo tutto stanno affrontando a loro volta un'odissea simile - è necessario in questa fase lasciare un po' fra parentesi le tentazioni di chiudersi a riccio intorno ad un'etica prestabilita o, Dio ce ne scampi, addirittura ad un qualche moralismo. Si tratta, in effetti, della stessa tentazione a livello pratico che trovavamo a livello teorico al primo punto. Lascia stare, non fuziona: se segui quella strada peggiorerai e non caverai un ragno dal buco. Il fatto è che in questa fase, costitutivamente, dovrai renderti conto che l'infinito sconvolgente a livello teorico-culturale riguarda per l'appunto e già fin dall'inizio la stessa dimensione pratica della vita. Di modo che l'abitudine, le leggi, le etiche dovranno, in questo processo di adattamento selvaggio al disadattamento costitutivo, rivelarsi per quello che sono: ausilii e sostegni, non regole assolute atte a censurare il pensiero. Detto in altre parole: si tratterà di scoprire che in etica si ragiona sempre "a posteriori" - un po' come per la filosofia secondo Hegel. O, il che è simile, si tratterà di scoprire che l'etica - guarda caso, proprio come la cultura - è un cantiere aperto, mai finito, sempre in costruzione. Credo che questa assunzione su di sè dell'infinito (in cui, non si dimentichi, "è dolce il naufragar") sia la capacità che più di tutte permette di inserirsi nella vita culturale dell'umanità. Di qui in avanti si stende la prateria accidentata e fascinosa della produzione del senso, quanto a dire ciò che sporge dal rapporto fra tu-persona e tu come soggetto di enunciazioni sempre da superare. Ed ora vedrai che tutto ciò che avevi studiato tempo addietro, unitamente a quanto ancora come un bambino studierai, ritornerà non più come albatross del controllo a chinarti la testa, ma semmai capacità di spiccare il volo dell'albatross che tu sei, reggendoti proprio sulle correnti del senso secreto dai voli di chi ti ha preceduto. Con un'avvertenza: guardati bene dal credere che, per l'appunto, si tratti di un processo finito ed esauribile, in cui si possa trovare una qualche perfezione. Se vogliamo il segreto finale è proprio questo: che ci saranno sempre difficoltà psicologiche, sempre qualche incoerenza fra teoria e prassi, sempre qualcosa da pensare o da fare. Ma per l'appunto ciò, se finalmente riesci a mandarlo giù, è l'ultimo boccone degli spinaci atti a rendere il tuo corpo, finalmente, relativamente, ma sacrosantamente creativo. Benvenuto a casa.

domenica 22 giugno 2014

Hysteria-Processor


Il tema della follìa fu caro alla mia adolescenza anche perché ricordo vagamente come quello fu il nome che detti al corso di pensiero che, avendo bisogno di una scusa per sentirmi libero, imboccai sotto l'egida del "non avere paura della morte". Era infatti una sorta di enigma e di sfinge quello per il quale, stando da cani, ero uso a numerose fantasie suicide, ma subito il senso di colpa, il terrore e lo sgomento bloccavano anche quelle. Il figlio dell'uomo non aveva davvero dove sbattere la testa, e fu per l'appunto il pensiero della "follìa" quello che forse per primo mi aprì la sfera della creatività e di un pensiero vagamente sensato. Non avere paura della morte - il pensiero folle - era infatti per me anche e surrettiziamente non avere paura della follìa stessa, lasciando così che il mio inconscio dicesse (o strepitasse, l'istericone) quello che aveva da dire. Su questa falsariga - e sulla mia incipiente sindrome ossessiva compulsiva e/o disformismo psicologico - nascevano poesie come questa.


My Skin

Dry

Sharp Paper

Itching

Through my Sores

Entirely.


Non dirò molto altro. Penso, tutto sommato, che queste piccole illuminazioni epigrafiche siano le poesie più riuscite di quel mio periodo. Nascevano tutte insieme, come un lampo - lampo che a volte ancora io dilaziono su versi e giri più ampi, ipnotico - e come un lampo si inabissavano nel "già scritto", senza che nemmeno io potessi comprendere fino in fondo il perché di quelle parole. Qui in particolare potremmo dire del senso di deformazione del corpo - eternato dall'affastellamento di maiuscole e dalla spezzettatura versale - che disperatamente avevo bisogno di lamentare, non avendone parole; o potrei parlare della carta stessa della scrittura, che si faceva terribilmente sharp proprio per penetrare, timidamente, laddove la mia ragione non arrivava. Potrei forse cercare di fare un'analisi di come la ricorsività domini - ma senza metalinguaggio! - questo autoriferimento sfaldantesi nella oniricità di un grido. Ma non lo farò, se già non l'ho fatto. Poesie come questa, bella o brutta che sia, rimangono per me come icone, di cui altri, ma non io, potrebbero occuparsi.